Non riusciva a ricordare più nulla, a stabilire altri nessi. Ma già così bastava: rotolando, volando, all’improvviso gli corsero incontro i frammenti assolati di una giornata estiva della sua infanzia (mentre saltava dalla finestra, il giubbino s’era impigliato alla serratura dell’imposta), e poi altri frammenti – ridicoli e tristi, variopinti, così rapidi che non si riusciva a trattenerli. E i guanti bianchi e stretti su quelle manine, e il lungo pastrano da cadetto, e tutto ciò che di fiero e orribile accadde dopo che entrò nel Nikolaevskij, e la meravigliosa, selvaggia libertà di quella primavera, e poi di nuovo l’azzurrità decembrina, e quell’incrocio vicino al ponte della Borsa dove un giorno, chissà perché, s’era immaginato un transatlantico che immerso nelle nebbie entrava nella Malaja Neva spaccando gli argini, levandosi più alto della fortezza di Pietro e Paolo; e altre cose ancora: i minacciosi accordi singhiozzanti, le volute delle trombe del reggimento sulla bara di suo padre. Sabbia e neve. E silenzio.
Nina Berberova – “Il lacchè e la puttana”
(1986, Adelphi, pag. 49)