Lieve era il suo aggettivo preferito. Le foglie che cadono, le pagine voltate piano, un maglione di cachemire posato sulle spalle, la vibrazione del cellulare sempre silenziato. Da quando lei e babbo si erano separati mamma aveva sviluppato una predilezione per tutto quello che non lascia impronte e si sdegnava solo per le cose urlate, le righe oltrepassate, gli stridori. Aver sposato un uomo che aveva gridato per venticinque anni le aveva lasciato un segno profondo, e se non mi avesse detto che il risultato delle analisi era lieve forse avrei pensato che davvero non ci fosse nulla più di un’ombra.
Ma c’è qualcosa che non mi stai dicendo?
Lei rimase per qualche secondo rivolta allo scaffale rimettendo il pacco di riso in mezzo agli altri, poi si voltò a guardarmi.
Dice il medico che nel polmone ho qualcosa
Qualcosa. Quella parola vaga mi fece paura più di una sentenza esplicita. Le cose senza contorno mi riportavano alla condizione affidataria dell’infanzia, al timore atavico degli armadi socchiusi, al rifiuto ostinato di prestarmi al gioco buio della mosca cieca. Nella nostra casa fatta tutta di spigoli l’unica cosa sfumata era stata una macchia scura sulla carta da parati del soggiorno. Ci ero passata accanto mille volte con quell’indifferenza che gli adulti chiamano familiarità, fino al giorno in cui una compagna del liceo non mi aveva domandato cos’era quell’alone, rivelandone la natura estranea. “Chi ha fatto la macchia?” Non lo sapevo. Chi abitava lì prima di noi? Neanche quello sapevo. Quell’ombra era un frutto lanciato contro il muro durante una lite? O magari il pianto che il figlio degli inquilini precedenti aveva affidato alla parete, sicuro che tenesse il segreto?
In casa mia c’era un modo pauroso di far esistere le cose e consisteva nel non nominarle mai. Io i nomi delle cose li pretendevo.
Davanti alle tazze sporche di un caffè preso malvolentieri, sapevo di non aver più bisogno di spiegargli che una famiglia è il posto dove essere sangue del sangue significa essere l’uno la ferita dell’altro.
Bisogna essere molto attenti per riconoscere nei gesti altrui il suono sordo della ceramica scheggiata.
Michela Murgia – “Chirù”
(Einaudi, 2015, pag. 143, pag.125, pag.59)