Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante, perché essi non erano sadici o assassini per natura; (…) Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte la sofferenza fisica degli altri. (…) E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo fare nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle! (…) Il fattore più importante, come Hitler aveva calcolato e previsto, era lo stato di guerra in sé e per sé. Eichmann insisté più volte sul fatto che “l’atteggiamento personale” nei confronti della morte non poteva non cambiare quando “si vedevano morti dappertutto” e quando ciascuno pensava con indifferenza alla propria morte.
Hannah Arendt – “La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme”
(Feltrinelli Editore Milano, 1964, pag. 126-126)